La Sezione Quinta civile della Corte di cassazione ha disposto, ai sensi dell’art. 374, co. 2, c.p.c., la trasmissione del ricorso al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione relativa al contenuto e ai limiti della cd. “prova di resistenza” a carico del contribuente in caso di violazione, da parte dell’Amministrazione finanziaria, del contraddittorio endoprocedimentale, obbligatorio per i tributi armonizzati.
Nel sistema tributario, al di fuori di fattispecie tassativamente previste, manca un generale obbligo, in capo all’Amministrazione finanziaria, di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, almeno sino al D.Lgs. n. 219 del 30 dicembre 2023 che ha introdotto l’art. 6bis dello Statuto del contribuente rubricato “Principio del contraddittorio“.
La Corte di cassazione ha escluso che un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale si possa ricavare dall’art. 12, co. 7 Legge n. 212/2000 (“Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente”), la cui applicazione è limitata ai soli accertamenti consequenziali ad accessi, ispezioni e verifiche presso i luoghi di riferimento del contribuente con esclusione delle verifiche “a tavolino”.
Nell’ambito del diritto europeo, invece, l’obbligo generale di attivazione del contraddittorio in capo all’Amministrazione rappresenta un principio acquisito: dal diritto a una buona amministrazione sancito dall’art. 41, paragrafo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea deriva, al paragrafo 2, “il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio”.
Tale obbligo impone all’Amministrazione, ove adotti provvedimenti destinati ad incidere sulle posizioni soggettive dei destinatari, di mettere costoro in condizione di esporre il loro punto di vista in merito agli elementi posti a fondamento dell’atto medesimo; qualora l’Amministrazione non sia stata rispettosa dell’obbligo di contraddittorio, la violazione – in assenza di una norma specifica che ne definisca in termini puntuali le conseguenze – comporta l’invalidità dell’atto, purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e se, in mancanza del suddetto vizio, il procedimento si sarebbe potuto concludere in maniera diversa.
Questo orientamento è stato recepito dal giudice nazionale; le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 24823 del 9 dicembre 2015, hanno precisato che il requisito in questione va inteso “nel senso che l’effetto della nullità dell’accertamento si verifichi allorché, in sede giudiziale, risulti che il contraddittorio procedimentale, se vi fosse stato, non si sarebbe risolto in puro simulacro, ma avrebbe rivestito una sua ragion d’essere, consentendo al contribuente di addurre elementi difensivi non del tutto vacui e, dunque, non puramente fittizi o strumentali”, aggiungendo che “non è sufficiente che, in giudizio, chi se ne dolga si limiti alla relativa formalistica eccezione, ma è, altresì, necessario che esso assolva l’onere di prospettare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa”.
Entro questa cornice di principi, tuttavia, mancano specifici orientamenti sui contenuti e limiti della “prova di resistenza”: mentre la Corte di giustizia richiede che il contribuente dimostri che “in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso”, le Sezioni Unite indicano ragioni che non siano “puramente pretestuose” o “non del tutto vacue”.
Se, da un lato, la giurisprudenza successiva alle Sezioni Unite non ha approfondito la questione e si è espressa non in modo univoco e, dall’altro, il Legislatore non ha fatto chiarezza sul punto, la Corte costituzionale, occupandosi della legittimità costituzionale dell’art. 12, co. 7 dello Statuto del Contribuente, ha richiesto, ai fini della “prova di resistenza”, l’allegazione da parte del contribuente delle “ragioni che avrebbe potuto far valere in sede procedimentale e il conseguente pregiudizio sostanziale subito”, il che sembra sottintendere la verifica circa un risultato diverso del procedimento in caso di rispetto del contraddittorio (sentenza 21 marzo 2023 n. 47).
Ad avviso della Corte, dunque, la rilevanza e il peso di queste considerazioni nell’ambito della valutazione della “prova di resistenza” dipendono dal criterio di giudizio adottato; la discrasia tra principio unionale e giurisprudenza nazionale su contenuto e limiti della “prova di resistenza” nonché la mancanza di precise indicazioni su quanto a fondo ci si debba spingere nella valutazione delle difese addotte dal contribuente rendono assai incerta l’individuazione del corretto metro di giudizio, tanto da giustificare l’intervento delle Sezioni Unite.